Fermarsi per vedere dove si sta andando, per ricordarci chi siamo in questo viaggio che continuamente ci fa cambiare, come in una danza in cui ogni passo ci avvicina o ci allontana dalle nostre parti più essenziali.

domenica 6 novembre 2016

Alfredo Camera






“Racconti e Incontri”
Psicodramma Analitico
di
 Alfredo Camera





Antefatto

La scena si svolge nel tardo pomeriggio di una giornata di sole autunnale, trascorsa tra i racconti raccontati e quelli secretati, tra giovani e anziani, tra maestri e allievi. Per sottofondo il tenero gorgoglio  di una piccola vita in braccio al suo giovane babbo.

I personaggi:
La Cura, seduta di spalle a chi guarda la scena
Il Curante, seduto di fronte alla Cura e ben visibile a chi guarda la scena
Il Cancro, in piedi tra la Cura e il Curante


I Atto

Il Curante:
"Cara Cura,
il gruppo è qui per te oggi.
Chi è la Cura?
Di cosa è fatta?
Sei una o sei tante?
C'è una Cura o ci sono tante cure?
Quante facce hai?
Cara Cura,
Stamattina, si è cominciato con una frase, del Presidente,
di scusa:
chiedeva scusa per il ritardo.
Si è sempre in ritardo: in ritardo nella Cura!
Si comincia la Cura quando il danno  è già cominciato
e si soffre per questo.
Arriviamo in ritardo.
Si cerca di recuperare il tempo perduto nella Cura
ma c'è già il danno.
E queste scuse le porta il Presidente del Volontariato.
Già, il Volontariato: la forza della volontà nel combattere il danno, il danno di base, che poi è la fragilità dell'essere vivente che appena nasce è già esposto alla sofferenza e alla Morte.
Il Volontariato come volontà umana di combattere per la Vita.

Cara cura,
Tu sei stata definita e descritta in molti modi.
Si è parlato molto oggi
di Mente,
di struttura che connette,
di ponti,
di porte
e di confini.
Ma allora la Cura è una Mente?
È una struttura che connette tanti fattori? tanti agenti e tante agenzie?
Sono state messe in campo  
figure e parole
disegni e frasi
racconti e formule
questa mattina e questa sera.
Toccare il padre per trovare le parole.
Fare un disegno per rappresentare la presenza di una madre.
Ma tu, cara Cura, sei una madre? o sei un padre?
Sei il sapere di un  padre  o l'estetica di una  madre?
Il sapere del padre è spesso un sapere saputo, un sapere scientifico che basta a sé stesso. 
L'estetica della madre è AISTHÊSIS: è sensazione, è emozione.
La Cura è il sapere paterno del protocollo scientifico
ma
la Cura è anche  la commozione gioiosa di una terapeuta che piange abbracciando il suo paziente.

Cara Cura,
Sei stata definita anche un numero paradossale.
Un numero tre che rappresenta la somma di due: uno più uno uguale tre.
Sei una relazione, è stato detto, sei qualcosa di più della somma di due agenti: Curante e Paziente.
È apparsa la figura di una albero con radici, tronco e rami: è un immagine dell' essere vivente, questa dell'albero, ma è anche immagine della Cura.
Cara Cura,
Si è parlato di te come equipe multidimensionale  e multiprofessionale.
Cara cura,
Non è che per caso soffri di una disturbo di personalità multipla?

Parla la Cura
"Sì, può capitare che vado incontro a scissioni, ad essere spezzettata tra i vari agenti, tra tutti quelli che pensano di rappresentarmi, ho bisogno di essere curata per evitare la frammentazione"

Il Curante
"Ecco quello che noi vogliamo fare: curare la Cura!
Deve essere la Cura il nostro paziente primario e il malato diventa il paziente secondario
nel senso che
solo se si è curata la cura si può curare il malato.
Questa è l'Alleanza Terapeutica.
Non quella classica verticale tra curante e paziente
ma
l'Alleanza Terapeutica orizzontale tra agenti curanti,
che è primaria e rappresenta la Mente della Cura: la struttura che connette i fattori della Cura.
Tante proposte sono state fatte per creare l'Alleanza Terapeutica ad esempio si è parlato di Supervisione d'equipe"

La Cura:
"Posso suggerire al posto della supervisione una Co-visione?
Un guardare insieme, magari tutti dal basso, arrivando al Super insieme, costruendo il Super attico tutti insieme, piano piano al piano alto"





II Atto
(... entra il Cancro)

Il Cancro:
"Sono il Cancro. Mi avete citato! mi definite il cattivo, il nemico, il distruttivo...
Però non avete parlato molto di me, eh!?
E le mie, di esigenze?
Vi ricordo che io rappresento la forma primaria della Vita:
cellule che si riproducono senza tregua, che diventano miliardi, che invadono senza tregua, perché non-ab-bia-mo-li-mi-ti!
Anarchia: rifiuto del sistema, rifiuto dei confini e delle porte, rifiuto del  limite.
Questa è la Vita sfrenata! che rifiuta l'Organizzazione Sistemica della Vita.
Per me Cancro, la Vita è volontà di potenza senza limiti, la Vita come Super-Vita.
Fate attenzione, però:
Se io intervengo è perchè il vostro sistema non funziona, è carente, è solo apparentemente vitale, e allora è ovvio che io posso entrare in gioco. È come in politica"

La Cura:
"Hai ragione: ecco perchè io devo essere anche politica come Cura, cioè devo essere una polis, dove molte figure collaborano a mantenere la Vita della comunità. È questo che appare oggi: famiglia, storie familiari, medici, psicologi, operatori sanitari, politici, volontari  sono tutti miei organi.
Anche io sono un organismo con tanti organi.
Ognuno di questi organi, però, deve rispettare e collaborare con gli altri e deve limitare se stesso, altrimenti il Cancro, la proliferazione, può riguardare anche questi organi.
Ci può essere un Cancro delle agenzie di Cura che metastatizza gli altri".

III Atto
(restano da soli il Curante e la Cura)
Il Curante:
 "Cara Cura, ma con la Morte come la mettiamo?
Comunque la Morte si può sconfiggere, cara Cura?
Eppure ne abbiamo parlato poco, oggi, della Morte..."
La Cura
"Eh no: io sono presente anche nella Morte, io so che la Morte può arrivare, la so accogliere, la devo accogliere come Cura, la Morte è parte della Vita.
La Morte è un fatto che avviene, che deve avvenire, ma che deve essere sociale: nel gruppo. Solo così anche la Morte viene presa dalla Vita e non distrugge la Vita".

Curante.
"Cara Cura, da curante ti chiedo: ma quale è, alla fine, il modo migliore per diventare curante?"
"Caro Curante, mi viene da risponderti con le parole di un premio Nobel: Bob Dylan
How many roads? Quante strade deve percorrere un uomo per essere uomo? Quante strade un curante deve percorrere per essere  curante? la risposta, mio caro  amico,  soffia nel vento”



domenica 30 ottobre 2016

mercoledì 12 ottobre 2016

Racconti e incontri

Ecco ci siamo... 

il tirocinio di Giomaria (Peddio), l'incontro con Daniela (Ibba), tutta l'estate al lavoro e poi Patrizia (Idile) e Marialuisa (Rocchigiani) e naturalmente Lucia (Deroma). 
E poi la cena "silenziosa" a Cagliari; i contatti di Pietro (Soddu) con le sedi dell'AIL e poi noi con gli psicologi  che nelle sedi lavorano finalmente : compagni in attraversamento e sosta.

Ed ecco...ci siamo, sulla pietra alta...







lunedì 10 ottobre 2016

E i gruppi di parola?

“Ci vogliono i gruppi di Parola per i genitori, non giudici”
(Andrea, 9 anni – 2011)


 Abbiamo provato a ragionare insieme alla nostra collega Patrizia Idile sulla possibilità di applicare la sua esperienza ( principalmente con i bambini dei genitori separati) al contesto sanitario e in particolare a quello psicooncologico. Ne è uscito questo articolo secondo me molto interessante


“Lo so cosa sento… ma non voglio dirlo”.  È così che mi rispose un operatore al primo incontro del “Gruppo di Parola” e riuscì a sintetizzare tutto ciò per cui questi gruppi sono nati anche recentemente in Italia, dopo le esperienze di altri Stati europei (canadesi, francesi e anglosassoni in particolare).
Per spiegare meglio la funzione di un “Gruppo di Parola” e chiarirne la denominazione, può essere utile riprendere questo pensiero: molti studi recenti sottolineano il forte bisogno degli operatori sanitari in campo oncologico ed ematologico di mettere parola e ricevere parola nei momenti di traumatizzazione vicaria. La maggior parte di essi non viene formata e informata in modo adeguato sul trauma insito nella relazione di cura, sul senso dei cambiamenti intercorrenti nell’organizzazione delle cure,  e viene lasciata sola e all’oscuro, senza possibilità di parlare dei sentimenti e delle paure specifiche di questa posizione lavorativa ed esistenziale. 
Risulta che la maggioranza delle decisioni vengono calate dall’alto senza che le informazioni circolino paritariamente e facilmente  tra  i membri dell’equipe (medici, ma soprattutto infermieri, ausiliari, o
ss e personale delle pulizie che nei reparti ematologici stabilisce una relazione stretta con il paziente).
“Mettere parola” non è sempre facile così il Gruppo, composto da altri che vivono la medesima esperienza e condotto da una persona che viene percepita come “estranea”, può rappresentare uno strumento importante ed una opportunità preziosa per dare un nome a ciò che si prova e, soprattutto, per “autorizzarsi” a provare determinati sentimenti (dolore, rabbia, vergogna, tristezza, speranza, curiosità, etc.), esplicitandoli senza paura.
Occorre chiarire, come specificato dalla Marzotto (2010), che “[…] il Gruppo di Parola non ha finalità terapeutiche nel senso che non presuppone uno stato di malattia e la relativa necessità di un cambiamento […]. Non si tratta nemmeno di un gruppo di ri-educazione”
La prassi metodologica sperimentata a Milano presso l’Università Cattolica - Alta Scuola di Psicologia Gemelli è quella di:

-          4 incontri, di due ore ciascuno (di cui l’ultimo con i coordinatori o responsabili), con 8/10 partecipanti;
-          iscrizione condivisa dal direttore del servizio;
-          condivisione e trattazione degli argomenti più importanti attraverso l’utilizzo di emoticon*, cartelloni, letture, giochi, drammatizzazione, etc.;
-          redazione di una lettera finale da leggere l’ultimo giorno
-          una “ritualità” dei gesti che, nella ripetizione durante tutti gli incontri, rappresenta un quadro simbolico importante che “rassicura”;
-          il “patto di segretezza” tra conduttore e partecipanti che sugella la reciproca fiducia e che permette di poter esprimere qualsiasi opinione sulla propria situazione.


Spazio comune di sogno

                                         














È nell’incontro con l’altro che prende forma l’esperienza. In questo spazio così complesso, che comprende svariati linguaggi, si costruiscono i significati e si condividono i vissuti. Ma cosa succede quando si comunica con linguaggi diversi, quando le appartenenze sociali, famigliari, istituzionali, culturali e storiche si intersecano? Citando Gregory Bateson, padre del pensiero sistemico, possiamo dire che, cosi come “Il fiume modella le sponde e le sponde guidano il fiume”, noi stessi siamo allo stesso tempo frutto e radice dell’ambiente che ci vede in relazione. È in questo luogo di complessità che la psicologia Sistemico Relazionale trova terreno fertile su cui posare le sue lenti, per una osservazione che non è di certo neutra rispetto ai sistemi che osserva. È su questi presupposti che nasce l’esperienza delle “soste”, frutto della collaborazione tra l’A.I.L. di Nuoro e la IEFCOSTRE di Cagliari, Scuola di Formazione in Psicoterapia Sistemico Relazionale. Nell’incontro tra la Psiconcologia e la Psicologia Sistemico Relazionale, abbiamo tratto gli spunti teorici per l’organizzazione e la metodologia degli incontri d’equipe. Di seguito una descrizione schematica della struttura e funzione degli incontri:

Tempi e frequenza degli incontri:
Un incontro ogni ultimo martedì del mese, della durata di un’ora.

Modalità di iscrizione:
Per partecipare agli incontri si è chiesto agli operatori di compilare il modulo di iscrizione e inserirlo nell’apposito raccoglitore entro il giorno precedente all’incontro e a partire dalla data di affissione dell’avviso.

Num. Partecipanti:
Max 6 -8 partecipanti

Modalità di conduzione:
Co-Presenza di n.1 psicologa del reparto e n.1 psicologo della scuola di formazione in Psicoterapia Sistemico Relazionale. La psicologa conduce l’incontro, modera gli interventi e chiarisce le regole. Lo psicologo esterno osserva gli scambi e nella chiusura dell’incontro restituisce in forma narrativa la trama dell’incontro.

Fasi dell’incontro:
1.      Ognuno dei partecipanti può proporre un caso o un argomento da trattare
2.      Si procede con il racconto del caso da parte di un operatore e si chiede ai partecipanti di segnare su un foglio quella che si considera essere la parola chiave
3.      Ognuno nel gruppo è chiamato a riferire il racconto attraverso la parola chiave individuata e a ipotizzare quale sia la motivazione, la domanda o la richiesta che il collega fa attraverso l’esposizione del caso
4.      La persona che ha prima raccontato il caso e, poi, ascoltato i commenti, dirà come si è sentita durante l’ascolto e da che cosa è rimasta maggiormente colpita.
5.      Lo psicologo restituisce ai partecipanti il filo dell’incontro attraverso la restituzione orientata alle ridondanze che regolano la relazione nel qui e ora del gruppo.

Giomaria Peddio, Daniela Seddone





venerdì 2 settembre 2016

Tra le righe




L’incontro in ospedale tra il medico e il paziente non è affatto banale. L’ospedale è familiare al medico che ci lavora e che ha orientato la sua vita ad abitarlo. L’ospedale per il medico è l’ambiente al quale la sua persona si è in vario modo adattata. 
L’ospedale è un ambiente ad alta complessità in quanto abitato dalla comunità delle persone che ci lavorano e dalle persone che ne usufruiscono e che nell’ambiente fisico creano l’ambiente relazionale. Questo ambiente, o contesto, è generato più o meno consapevolmente dai suoi abitanti e li influenza in base al diverso grado di responsabilità correlato al ruolo ricoperto. Minore è il potere della persona, maggiore è il potere del contesto sui suoi movimenti. L’ambiente in cui lavora l’operatore è il risultato del modello organizzativo vigente e delle regole implicite che lo governano e che facilitano o ostacolano la realizzazione di una convivenza orientata al raggiungimento dell’obiettivo che l’organizzazione si prefigge e che, nel nostro caso, è quello di salvaguardare la salute dei cittadini e della comunità.
Il medico incontra il paziente in questo spazio e può considerare questo incontro come parte dell’ingranaggio che tende a semplificare e ridurre il più possibile la complessità, per gestirla, oppure può disporsi all’ascolto della domanda che la persona porta e che, in quanto domanda di salute implica una dimensione soggettiva e dunque una certa dose di incertezza.
Nel primo caso, l’oggettivazione della domanda di salute della persona viene intesa esclusivamente come domanda rispetto alla dimensione biologica considerata come standardizzabile e omologabile. Tale analisi della domanda metterà l’incontro tra il medico e il paziente nella dimensione della filiera delle prestazioni in cui il medico gestisce la salute della persona, la quale delega a lui integralmente l’interpretazione dei segnali del corpo e della mente.
Nel secondo caso la domanda di salute può essere esplorata anche nelle dimensioni implicite che i segnali fisici com-portano nel loro manifestarsi. L’ascolto della dimensione soggettiva, insita nella domanda di salute del paziente, implica un consapevole processo di sintonizzazione affettiva. Quando due persone si incontrano si attiva in loro questa particolare competenza, garantita dai neuroni specchio(Gallese-Onnis 2015). La sintonizzazione affettiva è la capacità di sentire l’altro in sé stessi, di avere in sé una mappa dell’altro, del tu con cui si è in relazione in quel momento.  L’operatore della salute ha la possibilità di accedere consapevolmente a questa competenza per esplorare la domanda di salute della persona che è di per sé una domanda multidimensionale e soggettiva.
L’OMS, Organizzazione mondiale della sanità, propende per questo tipo di analisi della domanda, quella cioè che prende in considerazione la dimensione esplicita e implicita, oggettiva e intersoggettiva,soggettiva, biologica e psicologica e sociale. Nel definire la salute l’OMS parla infatti di “stato di Benessere psico-fisico” e non semplicemente di “assenza di malattia”.

La persona che entra in ospedale con una domanda di salute, quando la salute vacilla, si trova in uno stato di forte incertezza rispetto a sé, al sé corporeo e sociale.
La persona tende a ricercare dentro di sé i “modelli operativi interni” (Bowlby) che permettono un buon attaccamento nella relazione di accudimento. Questi modelli si sono formati nelle primissime fasi della vita di relazione… nel primo anno di vita della persona. L’ingresso in ospedale per una grave patologia comporta dunque, di per sé,una certa quota di regressione e dunque di paura, incertezza.
Il sonno è il primo a vacillare e la famiglia rappresenta il primo ambiente per la salvaguardia della propria identità in un momento che sollecita forti cambiamenti.

venerdì 24 giugno 2016

Paolo e Giacomo- storia a tre puntate tra le maglie della relazione terapeutica

Prima puntata:

"Ecco!"


Paolo: “Ecco il mio camice!" Stamattina sono arrivato prima del solito… Ho iniziato la giornata con calma questa volta e mentre percorrevo la strada che da casa mi porta in ospedale pensavo al percorso che mi ha portato qui… ai miei genitori, ai miei studi, alle persone incontrate fino ad ora. Pensavo alla responsabilità di ogni giorno verso la salute mia e dei miei pazienti…
Questo pensiero mi rende fiero di solito, a volte invece ne sento la pressione…
Eccomi arrivo. C’è tanta gente che aspetta di essere visitata. Arrivo. Ci sono i miei colleghi: qualcuno è mio compagno di viaggio da tanto… qualcun altro da poco.  Qualcuno in reparto ha sicuramente già iniziato ad accogliere i pazienti.
Li incontrerò piano piano, una persona per volta…
Tante persone le conosco già altre le vedo per la prima volta…
Le cartelle, i vetrini, gli esami  mi danno un’idea che si forma a partire dai miei studi e mi presenta chi incontrerò…
Poi ci saranno gli occhi, i volti, la corporatura, i movimenti, il respiro…
Sceglierò il da farsi in base alla mia esperienza  e a quella dei miei colleghi, alle linee guida nazionali e internazionali.
Ma in fondo so bene che quando incontro le persone, quando per la prima volta incontro una persona, è sempre un’esperienza molto importante per me, per la mia storia e per la mia professione.
A volte sono sereno, come stamattina, a volte sono teso, a volte sono preoccupato…
A volte riesco a meditare sulle parole che uso, a volte vado di fretta…a volte sono toccato da chi incontro a volte me ne sto distante. Provo a fare del mio meglio
Ecco TUTTO è pronto… ora mi presenterò e… PREGO! AVANTI


Giacomo: “Ecco gli esami!“Ecco gli esami!”. Li ho in mano, ho portato tutto? L’impegnativa è qui, il foglio delle firme è qua. Sono a digiuno ma non importa…  stamattina mi sono alzato presto…: temevo di arrivare in ritardo. Stanotte ho dormito male… è da ieri che sono un po’ agitato.
Mia moglie dorme accanto a me… Anche lei ha chiesto un giorno di permesso per domani. Sono contento che riposi. Vorrei parlarle. Non voglio che stia in pensiero. Anzi mi farò vedere rilassato perché stia tranquilla… devo dormire devo dormire… niente.
Il mio medico di famiglia mi ha mandato qui. Non so chi incontrerò… cosa mi chiederanno? Saprò rispondere? Faranno stare mia moglie con me? Potrò chiedere qualcosa? Il medico sarà gentile? Avrà tante di quelle cose da fare! Guarda come corrono… che ore sono? Potrò chiedergli qualcosa? Mi darà il foglio per il lavoro? Dovrò chiedere a lui o a qualcun’altro? Scusi … devo consegnare questo…Mi sento un po’…. Come mi sento…? Me lo chiedo da un po’… ecco tocca a me…Ora mi presenterò e … PREGO! AVANTI!



Seconda puntata


"Oggi ho saputo che"- In tre parti

 
I parte: il medico "Oggi ho saputo che"

Ecco, oggi il quadro è completo. Oggi è possibile iniziare con la terapia, prima però dovrò parlare al signor Giacomo della diagnosi.
Per avviare il protocollo ho da prendere il modulo del consenso informato. E’ importante che lui sappia, si ritiene che così aderisca meglio al piano terapeutico. Almeno questa è l’indicazione generale…
É suo diritto sapere. É un dovere per me informarlo.
É suo diritto, anche, essere informato in un modo tale che gli permetta di vivere al meglio il percorso di cura.
É un dovere per me informarlo gradualmente rispettando i suoi tempi di elaborazione per agevolare il rapporto con la terapia: i farmaci, i controlli frequenti…
Io e il signor Giacomo ci siamo incontrati alcune volte in queste settimane per valutare il suo stato di salute. Avevo un sospetto e ho indagato per verificare se fosse fondato. Ho cercato di tenere aperte le ipotesi con lui e tra me e me, in modo da parlare poi più chiaramente con la proposta di terapia in mano.
In questo modo mi sento più efficace e ho più strumenti di rassicurazione durante il colloquio.
Certo, ogni volta devo fare un bel paio di respiri.
A volte provo a sentire come sarebbe per me stare dall’altra parte e diventa troppo faticoso gestire le emozioni che arrivano una dopo l’altra o tutte insieme. A volte invece ho coscienza di avere una persona davanti, con la sua storia, diversa dalla mia e che quella persona ha il suo proprio modo di stare, di domandare o di stare in silenzio, di avvicinarsi e di allontanarsi.
A volte la coscienza di questa differenza aiuta, altre volte è di ostacolo… non so perché…
Ma quante storie… di’ la tua scoperta e la tua soluzione e finiscila qui. Durerà un attimo, non te ne accorgerai nemmeno e poi arriverà il prossimo e poi tornerai a casa…
No, aspetta… sono un medico… lavoro con la mia persona, con le mie mani, con i miei occhi, con la mia memoria, con la mia passione, lavoro con le persone, non solo con il loro corpo… sono una persona in equilibrio dinamico tra malessere e benessere… e incontrare le persone e sostenerle nella loro ricerca di un equilibrio dinamico tra benessere e malessere è il lavoro che ho scelto di fare quando ero un ragazzo e qualcuno, appassionandomi, ha sostenuto me in questa ricerca.
Userò uno dei modelli di comunicazione che ho imparato… mi aiuterà con le mie emozioni e a non confonderle con quelle della persona che ho davanti stamattina, il signor Giacomo, e che mi aspetta già.
Ecco:
a) scelgo lo spazio migliore a disposizione per poter ascoltare
b) cerco di capire cosa sa il paziente, che idea si è fatto del suo stato di salute
c) indago il bisogno del paziente di essere maggiormente informato e in base a questo metto a disposizione le informazioni
d) accetto e incoraggio l’espressione e la verbalizzazione delle emozioni
e) do spazio alle domande
f) chiedo al paziente di riassumere quanto condiviso
So che la comunicazione è un processo e quindi che dovrò ritornare sull’argomento più volte in seguito. La presenza di un familiare, se il paziente la vuole, gli servirà a condividere poi le informazioni e completare i pezzi non colti sul momento.
Ecco, ci siamo, AVANTI!




II parte: l’infermiere "oggi ho saputo che"

Oggi è arrivato il signor Giacomo. É da un po’ che ci vediamo per i prelievi e gli esami diagnostici di routine.
Non so nulla di cosa oggi il medico gli dirà. Sono un po’ preoccupata… abbiamo parlato tante volte.
É molto gentile, ha due bambini dell’età dei miei nipotini. Spero che vada tutto bene.
Forse lo rincontrerò per la terapia… molto probabilmente mi chiederà di avere delle delucidazioni su quanto gli ha detto il medico. Spero di avere in tempo qualche notizia per poter svolgere al meglio il mio ruolo che mi impegna ad avere una relazione interpersonale terapeutica con il paziente.
A volte dal colloquio con il medico i pazienti ricavano pochissime notizie e anche confuse. So che è naturale. Soprattutto alla comunicazione della diagnosi. E’ allora che noi infermiere risultiamo più accessibili per il procedere dell’elaborazione delle informazioni e dell’esperienza in corso…
Gli scambi con noi sono più frequenti: l’appuntamento telefonico, il prelievo, la chiamata alla visita, la somministrazione della terapia, la medicazione, l’aggiunta di un farmaco, la dimissione… Si entra e si esce dalla stanza e ad ogni contatto può emergere una domanda, un dubbio… o può venire fuori un racconto, una confidenza…
A volte tornando a casa non posso non pensare alle persone che ho incontrato e che rivedrò a breve e spesso per lunghi periodi.


 III parte: il paziente "oggi ho saputo che"

Ecco ci siamo. Sono qui con mia moglie anche stamattina. Questa sala mi sta diventando familiare. Gli esami da fare li ho fatti. Oggi dovrò incontrare il medico. Non so se lei potrà entrare. Non so se voglio che entri. Non so se capirò bene… se potrò chiedere, fare domande… hanno sempre tanto da fare… ci sono tante persone intorno a me. Qualcuno è già stato chiamato alla visita, qualcuno attende di essere chiamato per i prelievi. Mi pare anche che molte di queste persone in attesa siano amici e familiari….
Ho preso il giornale per far passare questo tempo. Mia moglie nel mentre cerca su internet qualche articolo utile per la ricerca di storia di nostra figlia. Questo tempo senza sapere, fatto di analisi e ipotesi è stato molto faticoso. Ho dormito poco. Mi sono sentito in allerta. Spesso non ho riposato bene. Oggi saprò cosa mi sta accadendo e come dovrò curarmi. Mi sento un pò confuso. Come se avessi perso la sicurezza… la conoscenza del mio corpo. Sarà che ho dovuto sospendere le mie abitudini e concentrarmi sulla mia salute. Cosa che ho fatto raramente fino ad ora. La mia salute è stata lì presente senza che ci facessi tanto caso.
Stiamo uscendo da un periodo difficile. Abbiamo curato i nostri genitori e una nostra parente a cui eravamo molto affezionati e anche lei è venuta a mancare. Ma ci stiamo riprendendo piano piano. Siamo abbastanza sereni e in questo periodo siamo stati più vicini e io e mia moglie abbiamo parlato tra di noi, come non accadeva da tempo presi dagli impegni di tutti i giorni. Sì forse sarebbe meglio che entrasse anche lei. Se è possibile chiederò che entri.
Avanti signor Giacomo! La guardo mia moglie, ci alziamo, entriamo.



sabato 18 giugno 2016

Psiconcologia e approccio sistemico-relazionale

Fermarsi per capire chi siamo…



Prima dell’incontro 

Martina: Domani ci sarà il gruppo con gli operatori, la psicologa ci farà sedere tutti intorno per parlare di un caso del reparto o di un argomento che necessita di essere approfondito. “Approfondito”, questa parola mi dà un senso di pesantezza allo stomaco. Stare lì, davanti a tutti, a parlare di me in una situazione così critica, non vedo a cosa possa servire! Con tutte le cose che abbiamo da fare poi! Non so se parteciperò, sento un po’ le altre…
Ciao Paola, ti sei iscritta al gruppo di domani?

Paola: Si mi sono iscritta, è importante partecipare a questi incontri, una chiacchierata fa sempre bene! 

Martina: Beh si ma con tutto quello che c’è da fare…e Cristina, tu parteciperai?

Cristina: Certo che sì, ne ho proprio bisogno, è due settimane che aspetto di parlare con la psicologa! Fosse per me ci andrei ogni giorno! Spero che partecipino tutti perché queste sono occasioni importanti di confronto. Ogni volta succedono le cose e facciamo finta di niente per poi ritrovarci sempre nella stessa situazione…c’è bisogno di fare un po’ il punto!

Martina: Sì può essere utile, anche se poi con i pazienti cambierà poco… 

Psicologo: oggi ci sarà l’incontro con il gruppo di operatori, sono molto emozionato, chissà in quanti parteciperanno e quali emozioni forti oggi caratterizzeranno il gruppo. Spero di riuscire ad accoglierle e far sì che i partecipanti possano elaborarle, condividerle, in modo che si facciano più nitide e si eviti che offuschino il nostro cammino in reparto. La con-presenza ci permetterà di utilizzare al meglio le risorse, uno sguardo più interno, che colga il calore nelle relazioni con gli altri operatori, e uno più esterno che possa meglio osservare la coreografia che si crea in questo movimento tra dentro e fuori, nell’incontro costante tra sé e l’altro, in quel luogo in cui è così difficile stare, quel luogo in cui nulla si fa e proprio per questo qualcosa accade. 

Giomaria Peddio


venerdì 17 giugno 2016

La Casa Ail e la notte di Natale


Benvenuti in questo spazio, frutto della collaborazione con Pietro (dott. P.M. Soddu) che ha costruito l'architrave di questo Blog, e che sempre, con un gesto di amicizia, mi accoglie in Casa Ail il giovedì mattina; e con Giomaria (dott. G. Peddio) che, con la sua frequenza puntuale e partecipata, ha coinvolto nel lavoro la IEFCOSTRE: Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Sistemico-Relazionale fondata dall’amatissimo Prof. Luigi Onnis salito su una stella della notte di Natale.

Aggirando l’edilizia, e i processi psicologici di attribuzione dei locali in Ospedale, abbiamo ricavato questo luogo virtuale per parlare insieme di psiconcologia e di psicologia sistemico-relazionale.
Abbiamo voluto un posto per il racconto di chi vuole condividere la propria esperienza attraverso la scrittura partecipata.
Verranno proposti qui di volta in volta dei temi sui cui riflettere insieme. I messaggi verranno pubblicati e curati da me, Daniela Seddone, psicologa dell’Ail per il reparto di Ematologia di Nuoro,  e da Giomaria Peddio nell’ambito della convenzione tra l’Associazione e la IEFCOSTRE.

Nota: Dal 2007 è presente il servizio di Psicologia nel Reparto di Ematologia, inizialmente grazie alla Federazione Nazionale delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (Favo) con cui l’Ail di Nuoro è federata; in seguito e  fino ad ora ciò è stato possibile grazie al contributo dell’Azienda Sanitaria e, soprattutto, dell’Ail di Nuoro.








Storie e ri-storie


“Ma, mamma perché raccontiamo le storie?”
“Chi Anna?… raccontiamo chi?”
“Io e te mamma… Perché le raccontiamo le storie?”
“Non ti piace più piccolina mia?”
“No, anzi mamma: mi piace mooooltissimo..”
“Mamma…”
“Sì”
 “Ti ricordi di quando ero in quella storia che mi ha raccontato babbo… che eravamo al mare e che tu trovavi una conchiglia magica? Eh: io ero molto contenta che l’avevamo trovata. E perché l’abbiamo raccontata?”
“ Ah sì me lo ricordo quando eri in quella storia Anna. Era bella la conchiglia… Ed eri contenta?”
“Moltissimo! e poi era magica la conchiglia… poteva anche diventare di tutti i colori e io ero contenta perché anche io ero un’altra Anna al mare”
“Ecco, l’abbiamo raccontata perché così possiamo allenarci a raccogliere la magia delle conchiglie per quest’estate, e possiamo anche ricordarci che erano di tutti i colori, non solo di uno e poi anche perché tu sei molto contenta al mare e anche nelle storie del mare… ”
 “ e quando ero nella storia di Malefica che mi faceva paura e babbo l’ha sgridata? E poi io l’ho fatta sparire? Perché l’abbiamo fatta quella storia mamma?”
“eri spaventata?”
“prima sì perché le streghe sono bruutte e cattivone… poi però io l’ho fatta sparire e poi l’ho fatta diventare brava e obbediente e non ho avuto più paura di lei”



Parliamo di Psiconcologia. Perché le storie?
Possiamo scegliere altri modi altrettanto, e forse anche più, validi e chiari… Ma, perché, allora, anche le storie? 
L’idea da cui partiamo e che la complessità del nostro argomento sia altissima. Possiamo percorrere due strade:
 1. suddividere la complessità in elementi e coglierne le interconnessioni principali eliminando le informazioni di troppo che ci fanno distrarre e perdere di vista  la linearità delle leggi in campo;
 2. considerare il rumore di fondo, il chiasso sottostante alle informazioni, la molteplicità delle interpretazioni e le circuitazioni delle cause e degli effetti come fulcro della nostra osservazione. In questo caso anche il nostro osservare e il nostro non capire e essere disturbati o incuriositi dal rumore e dall’errore diventerà parte del fenomeno da osservare…
Quando decidiamo di raccontare delle storie propendiamo per la seconda possibilità.

Sono storie… non pretendono di esaurire tutto il campo delle descrizioni. Le storie scelgono un punto di vista e sciolgono la trama a partire da quello e proprio in questo sta il loro valore. Non chiudono, le storie. Ognuna di esse apre ad un'altra possibile e non del tutto prevedibile. In quanto aderenti a un punto di vista soggettivo, le storie non sono conchiuse, esse non sono necessariamente aderenti alla realtà ma sono, devono essere, coerenti al loro interno. Il vincolo a cui le storie per essere efficaci devono sottostare è interno ad esse: devono essere coerenti tra le loro parti.
Le storie hanno significato in quanto rappresentano un tentativo di riordinare la realtà costruendo un contesto per i significati di quanto in esse accade e sono dunque soggettive ma vincolate alla coerenza interna.
Quando questa coerenza interna non c’è più le storie si inceppano, il senso non si trova, la paura incombe e il rischio è di oggettivare e tralasciare il punto di vista, il rumore creativo… e di classificare e catalogare la vita intima e multicolore delle conchiglie magiche sulla spiaggia. Una delle classificazioni possibili è quella della diagnosi… della rilevazione del sintomo come rottura, guasto da riparare e non come unità di significato da disvelare.
Perché le storie? Perché quando la Psicologia incontra le persone non può esimersi dall’ascoltarle una per una e dall’usare le conoscenze che ha acquisito come mappa che aiuta a muoversi nel territorio, certo, ma che non è essa stessa il territorio. Il territorio chiede di essere conosciuto attraverso percorsi di senso fatti a piedi, lenti, legati alla materialità dei corpi e delle parole che ciascuno con le proprie scarpe, se le ha e se non le ha, traccia tra le foglie e la terra. E più si esplora il territorio della soggettività e più si trovano scorci impensati e cangianti e le possibilità di conoscenza, e di costruzione della conoscenza, si ampliano e si aprono a nuove possibilità di racconto.
Il racconto è lo spazio rispettoso di sé e dell’altro dove ciascuno può giocare a dire e non dire e a capire e non capire. Nel racconto il rumore è la risorsa soggettiva dove proiettare parti di sé. Come con le nuvole in cielo che cambiano forma, se ancora abbiamo la curiosità di guardarle. Cambiano forma le nuvole a  seconda che i nostri occhi siano bambini o adulti o anziani, a seconda che andiamo piano o veloce, che siamo tristi o allegri ed è nel racconto, nella condivisione della forma delle nuvole che prende piega la nostra esperienza e diviene comunicabile e trasformabile.
 Il compito… o  almeno uno dei compiti della psicologia come della psiconcologia è riaprire spazi di pensieri e di emozioni; è ampliare la gamma delle narrazioni sulla salute e sulla malattia… sulla vita e sui suoi sentieri mentali e corporei.
L’apertura della gamma delle storie possibili, dei mille finali, dei molteplici riavvii, rimette in mano la conchiglia multicolore  e fa  ri-creare e ri-co-costruire il senso di ciò che accade senza esserne travolti, o almeno, senza esserne travolti tanto a lungo da non sapere riprendere il filo del punto in cui ci trovavamo.