Fermarsi per vedere dove si sta andando, per ricordarci chi siamo in questo viaggio che continuamente ci fa cambiare, come in una danza in cui ogni passo ci avvicina o ci allontana dalle nostre parti più essenziali.

venerdì 17 giugno 2016

Storie e ri-storie


“Ma, mamma perché raccontiamo le storie?”
“Chi Anna?… raccontiamo chi?”
“Io e te mamma… Perché le raccontiamo le storie?”
“Non ti piace più piccolina mia?”
“No, anzi mamma: mi piace mooooltissimo..”
“Mamma…”
“Sì”
 “Ti ricordi di quando ero in quella storia che mi ha raccontato babbo… che eravamo al mare e che tu trovavi una conchiglia magica? Eh: io ero molto contenta che l’avevamo trovata. E perché l’abbiamo raccontata?”
“ Ah sì me lo ricordo quando eri in quella storia Anna. Era bella la conchiglia… Ed eri contenta?”
“Moltissimo! e poi era magica la conchiglia… poteva anche diventare di tutti i colori e io ero contenta perché anche io ero un’altra Anna al mare”
“Ecco, l’abbiamo raccontata perché così possiamo allenarci a raccogliere la magia delle conchiglie per quest’estate, e possiamo anche ricordarci che erano di tutti i colori, non solo di uno e poi anche perché tu sei molto contenta al mare e anche nelle storie del mare… ”
 “ e quando ero nella storia di Malefica che mi faceva paura e babbo l’ha sgridata? E poi io l’ho fatta sparire? Perché l’abbiamo fatta quella storia mamma?”
“eri spaventata?”
“prima sì perché le streghe sono bruutte e cattivone… poi però io l’ho fatta sparire e poi l’ho fatta diventare brava e obbediente e non ho avuto più paura di lei”



Parliamo di Psiconcologia. Perché le storie?
Possiamo scegliere altri modi altrettanto, e forse anche più, validi e chiari… Ma, perché, allora, anche le storie? 
L’idea da cui partiamo e che la complessità del nostro argomento sia altissima. Possiamo percorrere due strade:
 1. suddividere la complessità in elementi e coglierne le interconnessioni principali eliminando le informazioni di troppo che ci fanno distrarre e perdere di vista  la linearità delle leggi in campo;
 2. considerare il rumore di fondo, il chiasso sottostante alle informazioni, la molteplicità delle interpretazioni e le circuitazioni delle cause e degli effetti come fulcro della nostra osservazione. In questo caso anche il nostro osservare e il nostro non capire e essere disturbati o incuriositi dal rumore e dall’errore diventerà parte del fenomeno da osservare…
Quando decidiamo di raccontare delle storie propendiamo per la seconda possibilità.

Sono storie… non pretendono di esaurire tutto il campo delle descrizioni. Le storie scelgono un punto di vista e sciolgono la trama a partire da quello e proprio in questo sta il loro valore. Non chiudono, le storie. Ognuna di esse apre ad un'altra possibile e non del tutto prevedibile. In quanto aderenti a un punto di vista soggettivo, le storie non sono conchiuse, esse non sono necessariamente aderenti alla realtà ma sono, devono essere, coerenti al loro interno. Il vincolo a cui le storie per essere efficaci devono sottostare è interno ad esse: devono essere coerenti tra le loro parti.
Le storie hanno significato in quanto rappresentano un tentativo di riordinare la realtà costruendo un contesto per i significati di quanto in esse accade e sono dunque soggettive ma vincolate alla coerenza interna.
Quando questa coerenza interna non c’è più le storie si inceppano, il senso non si trova, la paura incombe e il rischio è di oggettivare e tralasciare il punto di vista, il rumore creativo… e di classificare e catalogare la vita intima e multicolore delle conchiglie magiche sulla spiaggia. Una delle classificazioni possibili è quella della diagnosi… della rilevazione del sintomo come rottura, guasto da riparare e non come unità di significato da disvelare.
Perché le storie? Perché quando la Psicologia incontra le persone non può esimersi dall’ascoltarle una per una e dall’usare le conoscenze che ha acquisito come mappa che aiuta a muoversi nel territorio, certo, ma che non è essa stessa il territorio. Il territorio chiede di essere conosciuto attraverso percorsi di senso fatti a piedi, lenti, legati alla materialità dei corpi e delle parole che ciascuno con le proprie scarpe, se le ha e se non le ha, traccia tra le foglie e la terra. E più si esplora il territorio della soggettività e più si trovano scorci impensati e cangianti e le possibilità di conoscenza, e di costruzione della conoscenza, si ampliano e si aprono a nuove possibilità di racconto.
Il racconto è lo spazio rispettoso di sé e dell’altro dove ciascuno può giocare a dire e non dire e a capire e non capire. Nel racconto il rumore è la risorsa soggettiva dove proiettare parti di sé. Come con le nuvole in cielo che cambiano forma, se ancora abbiamo la curiosità di guardarle. Cambiano forma le nuvole a  seconda che i nostri occhi siano bambini o adulti o anziani, a seconda che andiamo piano o veloce, che siamo tristi o allegri ed è nel racconto, nella condivisione della forma delle nuvole che prende piega la nostra esperienza e diviene comunicabile e trasformabile.
 Il compito… o  almeno uno dei compiti della psicologia come della psiconcologia è riaprire spazi di pensieri e di emozioni; è ampliare la gamma delle narrazioni sulla salute e sulla malattia… sulla vita e sui suoi sentieri mentali e corporei.
L’apertura della gamma delle storie possibili, dei mille finali, dei molteplici riavvii, rimette in mano la conchiglia multicolore  e fa  ri-creare e ri-co-costruire il senso di ciò che accade senza esserne travolti, o almeno, senza esserne travolti tanto a lungo da non sapere riprendere il filo del punto in cui ci trovavamo.








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