“Ci vogliono i gruppi di Parola per i genitori, non giudici”
(Andrea, 9 anni – 2011)
“Lo
so cosa sento… ma non voglio dirlo”. È
così che mi rispose un operatore al primo incontro del “Gruppo di Parola” e
riuscì a sintetizzare tutto ciò per cui questi gruppi sono nati anche
recentemente in Italia, dopo le esperienze di altri Stati europei (canadesi,
francesi e anglosassoni in particolare).
Per
spiegare meglio la funzione di un “Gruppo di Parola” e chiarirne la
denominazione, può essere utile riprendere questo pensiero: molti studi recenti
sottolineano il forte bisogno degli operatori sanitari in campo oncologico ed
ematologico di mettere parola e ricevere parola nei momenti di
traumatizzazione vicaria. La maggior parte di essi non viene formata e
informata in modo adeguato sul trauma insito nella relazione di cura, sul senso
dei cambiamenti intercorrenti nell’organizzazione delle cure, e viene lasciata sola e all’oscuro, senza
possibilità di parlare dei sentimenti e delle paure specifiche di questa
posizione lavorativa ed esistenziale.
Risulta che la maggioranza delle
decisioni vengono calate dall’alto senza che le informazioni circolino
paritariamente e facilmente tra i membri dell’equipe (medici, ma soprattutto
infermieri, ausiliari, o
ss e personale delle pulizie che nei reparti ematologici
stabilisce una relazione stretta con il paziente).
“Mettere
parola” non è sempre facile così il Gruppo, composto da altri che vivono la
medesima esperienza e condotto da una persona che viene percepita come “estranea”,
può rappresentare uno strumento importante ed una opportunità preziosa per dare un nome a ciò che si prova e,
soprattutto, per “autorizzarsi” a
provare determinati sentimenti (dolore, rabbia, vergogna, tristezza, speranza,
curiosità, etc.), esplicitandoli senza paura.
Occorre
chiarire, come specificato dalla Marzotto (2010), che “[…] il Gruppo di Parola
non ha finalità terapeutiche nel senso che non presuppone uno stato di malattia
e la relativa necessità di un cambiamento […]. Non si tratta nemmeno di un
gruppo di ri-educazione”
La
prassi metodologica sperimentata a Milano presso l’Università Cattolica - Alta
Scuola di Psicologia Gemelli è quella di:
-
4 incontri, di due ore ciascuno (di cui l’ultimo
con i coordinatori o responsabili), con 8/10 partecipanti;
-
iscrizione condivisa dal direttore del servizio;
-
condivisione e trattazione degli argomenti più
importanti attraverso l’utilizzo di emoticon*, cartelloni, letture, giochi,
drammatizzazione, etc.;
-
redazione di una lettera finale da leggere
l’ultimo giorno
-
una “ritualità” dei gesti che, nella ripetizione
durante tutti gli incontri, rappresenta un quadro simbolico importante che “rassicura”;
-
il “patto di segretezza” tra conduttore e
partecipanti che sugella la reciproca fiducia e che permette di poter esprimere
qualsiasi opinione sulla propria situazione.
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