Fermarsi per vedere dove si sta andando, per ricordarci chi siamo in questo viaggio che continuamente ci fa cambiare, come in una danza in cui ogni passo ci avvicina o ci allontana dalle nostre parti più essenziali.

lunedì 10 ottobre 2016

E i gruppi di parola?

“Ci vogliono i gruppi di Parola per i genitori, non giudici”
(Andrea, 9 anni – 2011)


 Abbiamo provato a ragionare insieme alla nostra collega Patrizia Idile sulla possibilità di applicare la sua esperienza ( principalmente con i bambini dei genitori separati) al contesto sanitario e in particolare a quello psicooncologico. Ne è uscito questo articolo secondo me molto interessante


“Lo so cosa sento… ma non voglio dirlo”.  È così che mi rispose un operatore al primo incontro del “Gruppo di Parola” e riuscì a sintetizzare tutto ciò per cui questi gruppi sono nati anche recentemente in Italia, dopo le esperienze di altri Stati europei (canadesi, francesi e anglosassoni in particolare).
Per spiegare meglio la funzione di un “Gruppo di Parola” e chiarirne la denominazione, può essere utile riprendere questo pensiero: molti studi recenti sottolineano il forte bisogno degli operatori sanitari in campo oncologico ed ematologico di mettere parola e ricevere parola nei momenti di traumatizzazione vicaria. La maggior parte di essi non viene formata e informata in modo adeguato sul trauma insito nella relazione di cura, sul senso dei cambiamenti intercorrenti nell’organizzazione delle cure,  e viene lasciata sola e all’oscuro, senza possibilità di parlare dei sentimenti e delle paure specifiche di questa posizione lavorativa ed esistenziale. 
Risulta che la maggioranza delle decisioni vengono calate dall’alto senza che le informazioni circolino paritariamente e facilmente  tra  i membri dell’equipe (medici, ma soprattutto infermieri, ausiliari, o
ss e personale delle pulizie che nei reparti ematologici stabilisce una relazione stretta con il paziente).
“Mettere parola” non è sempre facile così il Gruppo, composto da altri che vivono la medesima esperienza e condotto da una persona che viene percepita come “estranea”, può rappresentare uno strumento importante ed una opportunità preziosa per dare un nome a ciò che si prova e, soprattutto, per “autorizzarsi” a provare determinati sentimenti (dolore, rabbia, vergogna, tristezza, speranza, curiosità, etc.), esplicitandoli senza paura.
Occorre chiarire, come specificato dalla Marzotto (2010), che “[…] il Gruppo di Parola non ha finalità terapeutiche nel senso che non presuppone uno stato di malattia e la relativa necessità di un cambiamento […]. Non si tratta nemmeno di un gruppo di ri-educazione”
La prassi metodologica sperimentata a Milano presso l’Università Cattolica - Alta Scuola di Psicologia Gemelli è quella di:

-          4 incontri, di due ore ciascuno (di cui l’ultimo con i coordinatori o responsabili), con 8/10 partecipanti;
-          iscrizione condivisa dal direttore del servizio;
-          condivisione e trattazione degli argomenti più importanti attraverso l’utilizzo di emoticon*, cartelloni, letture, giochi, drammatizzazione, etc.;
-          redazione di una lettera finale da leggere l’ultimo giorno
-          una “ritualità” dei gesti che, nella ripetizione durante tutti gli incontri, rappresenta un quadro simbolico importante che “rassicura”;
-          il “patto di segretezza” tra conduttore e partecipanti che sugella la reciproca fiducia e che permette di poter esprimere qualsiasi opinione sulla propria situazione.


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